Sappiamo che a Samhain, nome
celtico del Capodanno, si aprono le porte fra il Regno dell’Aldiqua
e l’Altromondo.
Secondo i Celti i morti risiedevano in una terra di eterna
giovinezza e di felicità, molto spesso descritta come un’isola
beata, e ritenevano che in certe occasioni potessero soggiornare
sulle colline insieme al misterioso Popolo Fatato.
Nella notte di Samhain tutte le leggi dello spazio e del tempo
erano sospese, permettendo agli spiriti dei morti e talora anche
dei vivi di passare liberamente da un mondo all’altro. Il confine
invalicabile fra l’Aldiqua e l’Altromondo si faceva più sottile e
cedevole, permettendo alle anime di mostrarsi o di comunicare con
i viventi.
Per questa ragione sono nate e si sono consolidate le celebrazioni
in onore dei defunti, tradizioni giunte fino ai giorni nostri con
qualche rituale che si mantiene inalterato nel tempo – per
esempio, accendere i lumini sulle tombe – anche se nessuno sa o
ricorda più perché «si usa fare così».
L’anno si rinnova
Tradizionalmente il Capodanno Celtico si celebra a partire dal
tramonto del sole, tra il 30 ottobre e il 1° novembre. Questo era
il momento più solenne e importante dell’antico: rappresentava il
rinnovamento dell’anno, la fine e l’inizio di un ciclo in natura,
nella vita quotidiana e nella sfera più intima e profonda della
vita stessa, la spiritualità. Questo Capodanno segnava la fine
dell’estate e l’inizio dell’inverno, la notte era più lunga del
giorno e l’anno nuovo si raffreddava gradualmente nella sua metà
oscura e sotterranea.
Samhain era chiamato anche Trinoux Samonia, ovvero “Tre Notti di
Fine Estate” e i festeggiamenti si protraevano per tre giornate.
Secondo lo scrittore Alfredo Cattabiani: «Anche la festa di San
Martino di Tours, che si celebra l’11 novembre, è un “capo d’anno”
perché si riallaccia al Samhain Celtico che durava per una decina
di giorni».
«Che anticamente l’11 novembre coincidesse con un inizio del ciclo
annuale» aggiunge l’antropologo Eraldo Baldini «e che ciò si sia
poi stratificato nella complessità dei calendari, sembrano
testimoniarlo dati non solo folkloristici. Un tempo, infatti, “A
San Martino cominciava l’attività dei tribunali, delle scuole e
dei Parlamenti, si tenevano le elezioni municipali, si pagavano
fittanze, rendite e locazioni, venivano rinnovati i contratti
agrari oppure si traslocava”, tant’è vero che ancora oggi si dice
‘far San Martino’ per traslocare.»
L’antica Festa dei Morti
Molte leggende celtichein cui si narrano cicli epici di re ed eroi
si svolgevano nella notte di Samhain. Queste leggende si
ricollegavano ai cicli di fertilità della Terra e all'inizio del
regno semestrale dell’Oscurità. Per i Celti, che erano un popolo
dedito all'agricoltura e alla pastorizia, questa ricorrenza
assumeva un’importanza particolarissima. La vita quotidiana
cambiava radicalmente: le greggi venivano riportate giù dagli
alpeggi e dai pascoli estivi, le ultime mele erano state raccolte,
i campi non davano più frutti e venivano preparati per la nuova
semina, le persone si chiudevano nelle case per trascorrere al
caldo le lunghe e fredde notti invernali trascorrendo il tempo in
lavori artigianali, costruendo utensili e passando le serate a
raccontarsi storie e leggende.
In alcune regioni del nord Europa, in particolare nelle Highlands
scozzesi, i giovani uomini percorrevano i confini delle fattorie,
dopo il tramonto, tenendo in mano delle torce fiammeggianti per
proteggere le famiglie dalle Fate e dalle forze malevole che erano
libere di camminare sulla terra quella notte. Questo era il
momento in cui si poteva facilmente prevedere il futuro e la
sorte, una tradizione che è rimasta “impigliata” in molte usanze
folkloriche.
Com’è nata l’attuale Festa dei Morti
Lo spiega compiutamente proprio Eraldo Baldini: «Con l’affermarsi
della nuova religione cristiana, la Chiesa cercò di cancellare le
antiche feste “pagane”, cioè appartenenti a religioni precedenti,
non abolendole, ma appropriandosene, riconducendole nel proprio
ambito e mantenendone vivi solo la data, ma in parte anche il
significato. Così, per cristianizzare il Capodanno Celtico, la
chiesa pose al 1° novembre la festa di Ognissanti, alla cui
diffusione contribuì soprattutto Alcuino (735-804), l’autorevole
consigliere di Carlo Magno.
Qualche decennio dopo, l’imperatore Ludovico il Pio, su richiesta
di papa Gregorio IV (827-844), ispirato a sua volta dai vescovi
locali, la estese a tutto il regno franco. Ma ci vollero ancora
molti secoli perché il 1° novembre diventasse per tutta la Chiesa
d’occidente la festa di Ognissanti: fu infatti papa Sisto IV a
renderla obbligatoria nel 1475. Per non snaturare le
caratteristiche di “festa dei morti” dell’antico Capodanno
Celtico, prendendo atto che comunque il popolo (e in larga parte
anche il clero) continuava a conservarle, la Chiesa poi dedicò il
giorno successivo, 2 novembre, alla Commemorazione dei defunti: fu
Odilone di Cluny, nel 998, a ordinare ai Cenobi dipendenti
dell’abbazia di celebrare l’ufficio dei defunti a partire dal
vespro del primo di novembre, mentre il giorno seguente i
sacerdoti avrebbero offerto al Signore l’Eucarestia pro requie
omnium defunctorum. Il rito poi si diffuse a poco a poco al resto
d’Europa, giungendo a Roma solo nel XIV secolo.
Al di là dei dati storici e degli aspetti della religiosità
“ufficiale”, quel che è certo è che nel folklore europeo, e quindi
anche italiano, i primi giorni di novembre hanno conservato
aspetti che riportano a un antico capodanno; per esempio, come
scrive Paolo Toschi, si può registrare l’usanza delle strenne in
quei giorni in varie parti d’Italia: e in quel caso i doni, vuole
la tradizione, sono portati dai morti. Infatti l’aspetto più
evidente in quel periodo è, come abbiamo detto, legato ad una
celebrazione dei defunti.»
[fonte: Eraldo Baldini, “La festa di Halloween in Romagna e nella
Padania: moda importata o tradizione millenaria?”, appendice a
“Romagna Celtica” di Anselmo Calvetti, Longo Editore, Ravenna
2000]
L’ospitalità agli antenati e il ristoro
Un tema fondamentale della Festa dei Morti è il rispetto e
l’ospitalità nei confronti dei defunti, i nostri antenati che
ritornano in questo mondo per una notte.
Le anime dei trapassati devono, in quel giorno, venir confortate e
placate, perché (al pari delle divinità e del Popolo Fatato) siano
propizie allo svolgersi dell'anno che ricomincia. Con il
Cristianesimo, il culto popolare si muove su un piano di preghiera
e di suffragio, ma nel frattempo i riflessi delle antiche
tradizioni rimangono inamovibili in alcune usanze proprie a tutti
i ceti sociali, dal più ricco al più povero.
Un’usanza sopravvissuta è quella di porre lumini accesi sulle
tombe.
In passato durante questa notte anche la casa restava
illuminata da una candela, si accendeva per rendere più agevole il
cammino dei defunti verso la loro antica dimora e la loro famiglia
terrena.
Da noi (ma anche nel resto dell’Europa) la tradizionale
accoglienza si ritrova in varie usanze, ancora vive in parte (nei
piccoli centri), in gran parte completamente abbandonate. Ecco
qualche esempio…
In Romagna una volta tutti si alzavano di buon’ora e i letti erano
lasciati liberi per il riposo degli antenati; si racconta che per
l’occasione la massaia «cambia le lenzuola e le sceglie candide di
bucato e odorose di spigo: appronta i letti per i morti della
casa, che vi tornano a riposare stanchi del viaggio percorso
dall’eternità». Anche nel Cremasco ci si alzava per tempo e si
sprimacciavano bene i letti, perché i trapassati potessero
trovarvi riposo.
Il banchetto è un’usanza registrata in molte regioni: quando
arrivano in casa, i defunti devono trovare anche cibo e ristoro,
così la mensa non si sparecchia e si lascia tutto pulito e
ordinato.
I rituali delle offerte, della questua e dei banchetti
Ancora oggi ad Halloween i bambini, mascherati da mostri, vanno di
casa in casa chiedendo un’offerta (“dolcetto o scherzetto?” si usa
dire, un po’ ricalcando il “trick or treat” anglosassone). È un
gioco rituale che deriva dall’antica tradizione di fare offerte ai
defunti per la loro Festa (a volte i doni si lasciavano sulle
tombe); in altri casi l’offerta si dava va chi li impersonava i
Morti recandosi nelle case per una questua rituale.
In molte delle nostre provincie il 1° novembre si usava fare una
questua per i poveri raccogliendo per le case pane e farina, e si
confezionavano dei dolci di forma particolare, detti «ossa dei
morti».
Tanti anni fa a Fezzano, in Liguria, alla sera e alla mattina i
bambini dicevano le preghiere insieme con i loro genitori e i
nonni raccontavano storie e poesie paurose. Alla vigilia dei Morti
i bambini andavano di casa in casa per ricevere in dono fave,
castagne bollite e fichi secchi; questi doni si chiamavano il «Ben
dei morti».
In Lombardia, le osterie di Bergamo e dei paesi vicini preparavano
grandi pentole colme di una speciale minestra d’orzo che veniva
caritatevolmente distribuita ai poveri. In Valcamonica e nel
Sellero si andava a messa e si pregava, al ritorno si faceva una
festa con la polenta e con lo “schelt”, un impasto fatto con
farina di castagne. Si andava nella stalla a mangiare e a parlare,
si faceva festa e ci si divertiva.
Il cibo che predice la sorte
Cibo tradizionalissimo per la ricorrenza dei Morti sono le fave:
secondo gli antichi contenevano le anime dei loro trapassati ed
erano sacre ai morti. Le fave, che per prime sbucavano dal terreno
primaverile dopo che il seme era stato sepolto nella terra, erano
il simbolo della resurrezione, già nell’antichissima credenza
precristiana, il segno che le anime dei morti non perivano con il
corpo. Anche oggi, in occasione delle festività dei primi di
novembre, le «favette» o «fave dei morti» hanno questo arcaico e
nobile significato.
A Voghera e nell’Oltrepò Pavese si cantava e si mimava il gioco de
“La bela vilana la pianta la fava... facendo in questa guisa»,
ripetendo inconsapevolmente una arcaica danza di incantesimo degli
agricoltori per propiziarsi la produttività della terra.
La fava, antico ingrediente anche per i filtri delle fattucchiere
è giunta attraverso i tempi con la sua carica di virtù magica al
guanciale delle donne (specialmente lombarde) per predire fortuna
o sfortuna domestica e nozze più o meno felici. Il rito si compie
così: sotto il cuscino si pongono tre fave dentro un sacchetto,
una intatta, una semisbucciata, una mondata e questa sarebbe la
maledetta che predice una disgrazia o un marito spiantato se
estratta per prima al mattino.
C’è anche il rito, altrettanto celtico, dove si predice la sorte
con una mela ma… ve lo racconteremo al prossimo Capodanno!
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